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La Supply Chain nell’epoca dell’incertezza: agile e fluida

WORKSHOP | 16 GIUGNO 2022, MILANO

Per capire se davvero le aziende italiane stanno ridefinendo il modello di Supply Chain e ascoltare alcune importanti testimonianze, EIM Italia ha organizzato un workshop che ha messo a confronto manager e dirigenti che, nei diversi settori di appartenenza, hanno potuto toccare con mano questo cambio di paradigma.

Ne è uscito un dibattito che ha visto punti di vista differenti, ma una sostanziale uniformità di vedute sul fatto che l’approccio utilizzato fino a pochi anni fa sulla Supply Chain ha segnato il passo, e forse non solo a causa delle conseguenze della pandemia.

Supply Chain nel business fluido: una rete, non una singola filiera

Le crisi recenti – ha spiegato nell’introduzione Gabriele Galeani, partner EIM – hanno messo sotto stress i processi di Supply Chain, ponendo in luce aree di debolezza strutturali.

Per i produttori europei, avere lead time di approvvigionamento dalla Cina o dal sudest asiatico di 2-3 mesi, spesso in modalità single sourcing, con pianificazioni molto lunghe e con zero capacità di assorbire variazioni della domanda, significa non riuscire a rispettare le consegne verso i clienti, oppure, nei casi migliori, dover assorbire aumenti dei costi interni senza possibilità di scaricarli a valle.

Il business fluido richiede una Supply Chain più corta, multi-sourcing e strutturata più come una rete che come una singola filiera. È forte l’impressione che il mondo globalizzato sia al tramonto e che ci dobbiamo abituare a una nuova realtà fatta di macro-regioni, in cui l’Europa allargata ad est con incluso il bacino del Mediterraneo possa rappresentare una delle macro-regioni rilevanti.

Il caso di Iveco Group, raccontato dal Supply Chain Director Federico Baiocco, è emblematico:

Negli anni che hanno preceduto la pandemia le nostre Supply Chain erano state allungate con un’ottica di riduzione dei costi. Il blocco delle forniture determinato dalla pandemia ci ha fatto toccare con mano gli impatti su una catena così lunga.

Abbiamo deciso di aumentare le scorte, ma ben presto si sono saturati gli spazi per stoccarle. Nel post pandemia abbiamo rivisto il modello e selezionato i fornitori sui materiali che prima venivano “insoursati” dall’estero. Abbiamo deciso così di dare vita a una Green Supply Chain.

Ragionare in termini di distretto e di prossimità

Vero è che l’emergenza ha creato disallineamenti tali che le aziende hanno dovuto fare ricorso a tutta la capacità dei propri manager per non deragliare.

Le regole sono saltate, i costi di spedizione sono decuplicati, le forniture a volte hanno subito aumenti di prezzo senza freni

ha chiarito Jan van Buggenum, Director Corporate Purchasing di Ferroli, importante realtà nel settore riscaldamento, climatizzazione e termoarredo.

Abbiamo sviluppato soluzioni per evitare di doverci fermare a causa di squilibri nella Supply Chain. Abbiamo deciso di fare partnership con i fornitori, aspetto spesso trascurato in Italia e in Europa. Ho chiuso accordi con loro per il prossimo anno per gestire insieme le forniture, così anche in caso di nuove crisi abbiamo la certezza che ci saranno disponibilità.

Come già accaduto diverse volte in passato, le grandi crisi internazionali fanno riemergere il fenomeno del protezionismo e cambiano gli equilibri globali. Secondo Paolo Bassetti, Board Director di SME,

nelle regole contrattuali con i fornitori è diventato un po’ un far west, ma è giusto lavorare con loro per aumentare l’efficienza.

Nell’est Europa il costo del lavoro è basso e il costo della logistica ragionevole: io istintivamente credo che dovremmo guardare con rinnovato interesse quello che succede lì, anche perché il protezionismo di realtà come gli Stati Uniti è diventato un problema.

Ma d’altra parte è giusto ragionare anche noi in termini di distretto e di prossimità. Serve per ragioni politiche e di territorio, ma anche perché i pezzi arrivano molto più rapidamente.

Anche noi – ha confessato Leonardo de Paolis, Ad di Curia Italy, importante realtà farmaceutica – abbiamo attinto a fornitori a basso costo in India e in Cina. È un modello di Supply Chain che con la pandemia abbiamo pagato caro. Ma già prima della pandemia e della guerra avevamo colto dei segni di debolezza in questa catena, specie in relazione ai tempi lunghi imposti dagli enti regolatori.

Oggi i nostri clienti – i big pharma – cominciano a pensare a realizzare partnership reali e a costruire una relazione che abbia una continuità. Investiamo insieme a loro oggi per un prodotto che sarà commercializzato nel 2025. Prima la programmazione non era di loro interesse, cercavano solo il miglior prezzo nell’immediato. Ora stiamo sviluppando una catena di valore che sia sostenibile nel tempo.

Un nuovo orizzonte: la sostenibilità ambientale

Daniele Barzaghi, Country Head Finance di Clariant Group Italia, ha ricostruito le tendenze a livello globale negli ultimi 12 anni nel settore chimico.

Nel 2010 il 55% della produzione mondiale chimica veniva fatta dai cosiddetti Paesi maturi (principalmente Usa ed Europa), mentre nel 2015 la percentuale è scesa al 40% (lasciando il 60% ai paesi emergenti). Una rivoluzione totale in soli cinque anni.

L’errore che tutti abbiamo riconosciuto adesso è di essere stati miopi sulla ricerca di costi bassi senza la visione complessiva di alcuni aspetti. Non si parlava mai del costo del trasporto o dei dazi doganali, che potevano vanificare il vantaggio economico, peraltro in paesi con una scarsa competenza tecnologica, imparagonabile a quella nostra.

Dal 2015 al 2020 la percentuale è passata dal 60 al 63%, ancora in aumento ma molto meno consistente. Oggi la tendenza si è fermata, anche perché è cambiata radicalmente l’ottica: la sostenibilità ambientale non è un semplice obiettivo, è l’essenza stessa di qualsiasi azienda chimica.

Un orizzonte totalmente mutato, quindi, ma non solo nel settore chimico.

Ora – secondo Federica Cavasino, Senior Consultant Strategic Sourcing e Former Head of Global Sourcing & Product Development di Benetton Group – si parla soprattutto di blockchain, trasparenza, sostenibilità ed economia circolare. Ci siamo chiesti come uscire dalla Cina, ben sapendo come fosse difficilmente sostituibile nonostante dazi che arrivano al 12%.

I cinesi però hanno aperto fabbriche in altri paesi, come in Myanmar e in Cambogia, che sono a dazio zero. Ma per alcuni capi guardiamo anche al bacino del Mediterraneo, per esempio in Egitto o in Tunisia.

A tirare le somme del dibattito ci ha pensato Pietro Butté, Client Partner di EIM:

Abbiamo posto molte domande e abbiamo parlato di modelli. La globalizzazione in parte è finita: emerge un modello misto per unire aspetti qualitativi e quantitativi e di relazione lungo la filiera.

Questo porta al concetto di Total Cost of Ownership. Trasporti, dazi, costi, valuta, servizio, conoscenza tecnologica sono tutti fattori che possono vanificare gli sforzi e ridurre la convenienza economica. Ma la sfida si basa ormai su un principio base condiviso: quello della sostenibilità.

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