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L’opportunità tutta italiana della crescita internazionale

Crescere oggi non è semplicemente necessario,
bensì è indispensabile.

Crescere oggi non è semplicemente necessario,
bensì è indispensabile.

In particolar modo, questo vale per molte aziende italiane che per decenni hanno avuto come riferimento il mercato domestico o poco altro e si sono condannate a un sottodimensionamento quasi permanente rispetto all’economia globale.

È allora evidente che, se le aziende italiane vogliono crescere, non possono trascurare l’obbligo della crescita fuori dai confini nazionali, dove esiste il “vero” mercato e la competizione è realmente globale.

Non solo il nostro paese è ormai marginale in termini di PIL a confronto con le grandi aree economiche, ma il tessuto industriale italiano è afflitto anche da nanismo “endogeno”, in quanto le nostre imprese hanno mediamente dimensioni inferiori a quelle dei principali paesi industrializzati. Facendo un confronto con la Germania, simile al nostro paese in quanto nazione prevalentemente manifatturiera, riteniamo utile riportare i seguenti dati, che chiariscono immediatamente il contesto e la situazione competitiva dell’Italia (dati Eurostat).

L’internazionalizzazione
come occasione
per la sopravvivenza della tua azienda

L’internazionalizzazione come occasione
per la sopravvivenza della tua azienda

Se vogliamo dare una dimensione di quanto la media azienda italiana sia più piccola come taglia rispetto al suo concorrente tedesco, possiamo prendere come riferimento il fatturato medio delle aziende sopra riportate considerando insieme le imprese grandi, medie e piccole: in generale, l’azienda italiana è circa 5 volte più piccola del suo concorrente tedesco.

È evidente quindi come le aziende italiane siano condannate a crescere più delle altre aziende concorrenti internazionali, e come tale condanna sia una condizione irrinunciabile per la loro sopravvivenza: chi non riuscirà ad arrivare alle dimensioni dei principali concorrenti, almeno a livello europeo, sarà destinato a sparire o, nel caso migliore, ad essere acquisito.

Al tempo stesso, è ormai anacronistico pensare di far crescere le nostre aziende solo all’interno dei confini nazionali: come ci hanno mostrato i numeri, il mercato è “là fuori”, al di là delle Alpi, e quantomeno una strategia di crescita sensata delle nostre aziende deve considerare come riferimento il mercato dell’Unione Europea.

È ben chiaro, dunque come la via dell’internazionalizzazione sia totalmente imprescindibile rispetto alla sopravvivenza dell’azienda.

Internazionalizzazione e imprese:
quali sono i requisiti per la crescita internazionale?

Internazionalizzazione e imprese: quali sono i requisiti per la crescita internazionale?

Quanto deve diventare grande la nostra azienda per poter competere nello scenario europeo o mondiale? E quanto fatturato deve provenire dall’estero, rispetto al tradizionale mercato italiano?

La prima domanda è particolarmente difficile e prevede una risposta articolata: infatti la dimensione minima sufficiente dipende fortemente dal settore in cui si opera, e quindi non esiste una risposta univoca. È chiaro che il fatturato minimo da raggiungere deve essere visto in relazione ai principali concorrenti, a livello almeno europeo, a cui bisogna far riferimento. Al tempo stesso, esistono delle sinergie di costo, ad esempio negli acquisti, in termini di volumi e di efficienza di scala, ma anche in altre aree come il marketing, se pensiamo agli investimenti necessari a creare un’infrastruttura di marketing digitale e una presenza sul web o sui canali social, che non possono essere raggiunte senza un minimo di fatturato o di personale dipendente.

Riguardo la seconda domanda, la risposta è più semplice ed è correlata al PIL italiano rispetto ai grandi blocchi e mercati mondiali: in via preliminare, possiamo affermare che oggi una qualunque azienda che abbia una quota di fatturato estero inferiore al 60% del suo totale dovrebbe porsi urgentemente la domanda se la sua strategia è solida, sostenibile nel tempo o se forse non sta dimenticando le opportunità enormi che esistono al di fuori dei confini nazionali.

L’export manager con la valigetta
non funziona: alcuni errori
da evitare quando parliamo di approccio internazionale

Partiamo da un presupposto, che serve a sgombrare il campo da pregiudizi, tradizioni tutte italiote e modalità di affrontare il business sbagliate e arcaiche: il manager con la valigetta non funziona. Se un’azienda o il suo proprietario pensano che far crescere l’azienda a livello internazionale significa assumere una persona, brava, giovane e volenterosa, e mandarla in giro per il mondo a caso cogliendo opportunità con il blocchetto degli ordini, allora forse è il caso di azzerare tutto e ricominciare da capo: il modello “commesso viaggiatore” appartiene agli anni ’60, insieme al campionario che lo stesso portava nella sua preziosa valigetta.

Un ulteriore indizio sulla modalità errata di affrontare il problema risiede nella struttura dell’organizzazione commerciale: quante volte abbiamo incontrato clienti che ci hanno fatto vedere un organigramma in cui era presente il “direttore vendite Italia” con la sua rete vendita e, a fianco, il “responsabile export”, anche quello con relativa organizzazione a cascata (o peggio, senza nulla sotto). La successiva domanda era: “Quanti paesi gestisce l’Export Manager?”, la cui invariabile risposta era sempre nell’intervallo da 30 a 50 paesi. Numeri del PIL alla mano, significa che una struttura commerciale gestisce il 2,3% del potenziale del mercato, l’altra il restante 97,7%…

L’export manager con la valigetta non funziona: alcuni errori da non fare quando parliamo di approccio internazionale

Partiamo da un presupposto, che serve a sgombrare il campo da pregiudizi, tradizioni tutte italiote e modalità di affrontare il business sbagliate e arcaiche: il manager con la valigetta non funziona. Se un’azienda o il suo proprietario pensano che far crescere l’azienda a livello internazionale significa assumere una persona, brava, giovane e volenterosa, e mandarla in giro per il mondo a caso cogliendo opportunità con il blocchetto degli ordini, allora forse è il caso di azzerare tutto e ricominciare da capo: il modello “commesso viaggiatore” appartiene agli anni ’60, insieme al campionario che lo stesso portava nella sua preziosa valigetta.

Un ulteriore indizio sulla modalità errata di affrontare il problema risiede nella struttura dell’organizzazione commerciale: quante volte abbiamo incontrato clienti che ci hanno fatto vedere un organigramma in cui era presente il “direttore vendite Italia” con la sua rete vendita e, a fianco, il “responsabile export”, anche quello con relativa organizzazione a cascata (o peggio, senza nulla sotto). La successiva domanda era: “Quanti paesi gestisce l’Export Manager?”, la cui invariabile risposta era sempre nell’intervallo da 30 a 50 paesi. Numeri del PIL alla mano, significa che una struttura commerciale gestisce il 2,3% del potenziale del mercato, l’altra il restante 97,7%…

Un altro esempio illuminante è l’ubicazione dei paesi in cui la nostra azienda vende allo stato attuale: se la riportiamo in una mappa geografica, molto spesso ci rendiamo conto che le vendite all’estero sono disperse, pochi volumi ma dappertutto, non c’è una concentrazione, manca il focus. Questo problema non riguarda solo le piccole e medie imprese: non mancano casi di grandi aziende multinazionali che hanno approcciato l’internazionalizzazione nella maniera sbagliata.
Ecco un esempio: una importante casa automobilistica internazionale si trovò ad affrontare il tema della penetrazione del mercato nell’Africa subsahariana, dove i marchi giapponesi da decenni vendevano qualche decina di migliaia di autoveicoli all’anno, rispetto alle sue vendite pressoché nulle.

Senza sapere molto del mercato, delle abitudini e delle necessità del consumatore in Nigeria o Etiopia, senza avere chiari i requisiti del prodotto, ad esempio la compatibilità dei suoi motori rispetto alla qualità delle benzine disponibili in loco, fu creato un piano commerciale con obiettivi ambiziosi (un paio di migliaia di vetture nei primi due anni) e avviata l’attività di vendita, con una rete di supporto e assistenza pressoché inesistente. Il risultato fu disastroso: ci si fermò alla consegna del primo stock di veicoli (qualche centinaio), a cui non fu fatto seguito, e che rimase sostanzialmente invenduto e inutilizzato.

Questi sono i classici sintomi di un’azienda che non si è posta seriamente il problema della crescita internazionale. Tale crescita non può essere gestita in maniera opportunistica, non è un business accessorio per l’azienda, ma deve essere il suo asse portante, il suo focus di sviluppo fondamentale. Per quanto la parola sia abusata e vada quindi utilizzata con cautela e moderazione, per l’internazionalizzazione serve innanzitutto una strategia.

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