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Gestire la complessità del business

WORKSHOP | 9 NOVEMBRE 2023, MILANO

La ricerca di una crescita sostenibile e l’identificazione di nuove forme di vantaggio competitivo costituiscono sfide di primaria importanza per qualsiasi impresa. Tuttavia, spesso questo processo comporta un aumento significativo della complessità gestionale. L’aumento delle geografie, dei canali, dei segmenti di mercato e dei prodotti offerti ha come conseguenza una serie di costi significativi che non sempre le aziende sono in grado di quantificare e di mettere sul piatto della bilancia per soppesarli con i benefici. Una gamma prodotti molto vasta, ad esempio, implica costi aggiuntivi in termini di ricerca e sviluppo, componenti, logistica, setup produttivi, livello degli stock e marketing. Ma la complessità porta con sé anche il rallentamento del processo decisionale a causa del crescente flusso di dati e informazioni, il possibile disallineamento dell’organizzazione, la defocalizzazione degli sforzi.

EIM Italia ha voluto provare ad approfondire l’argomento in un workshop che ha messo a confronto imprenditori e manager, raccogliendo la testimonianza diretta di chi, nei diversi ruoli, si è trovato di fronte al problema della complessità e lo ha affrontato a costo, in certi casi, di dover ripensare l’assetto organizzativo dell’azienda di appartenenza. Il dibattito è stato preceduto dalla presentazione di una survey che EIM Italia ha svolto su un campione di 180 persone, in prevalenza CEO di aziende B2B, in cui si evidenzia come la complessità sia ormai un tema strategico nell’agenda del CEO, anche perché cresciuta notevolmente rispetto all’epoca pre-Covid. Dalla ricerca emerge anche come i processi operativi per arginare la complessità non siano stati ancora definiti adeguatamente, spesso a causa della carenza di competenze organizzative e tecnologiche delle stesse aziende.

Una sfida di change management da affrontare con coraggio

“Fino a oggi – secondo Pietro Butté, Client Partner di EIM – chi ha deciso di affrontare il problema della complessità ha cercato di reingegnerizzare i processi aziendali, potenziare i sistemi informativi e semplificare il portafoglio prodotti. Qualcuno ha centrato l’obiettivo, ma in altri casi il successo non è stato così elevato e molte aziende non ci hanno neanche provato. È un tema che spaventa, perché richiede sforzi importanti e genera il timore di perdere fatturato. Risulta chiave, pertanto, acquisire competenze ad hoc e adattare al proprio caso le best practice adottate da aziende grandi, medie e piccole per avere successo”. Paradigmatico il caso illustrato da Eugenio Cecchin, oggi Regional President di BMI group per la regione DACH: “Ho gestito una PMI italiana, poi venduta a un fondo di private equity, cresciuta aggiungendo costantemente pezzi a ciò che si vendeva l’anno precedente. Arrivati a un certo punto, però, la curva del profitto non ha seguito più la curva dei ricavi. Ogni prodotto era pensato in maniera individuale e gestire una piattaforma clienti così eterogenea è diventato sempre più complesso. Per noi la soluzione è stata razionalizzare, combinando prodotti e componentistica per ridurre la variabilità. Una sfida di change management che ci ha fatto capire come togliendo qualcosa si sarebbe potuto crescere”.

Il rischio è che la complessità confonda la narrazione e la percezione del prodotto

Pierpaolo Palmieri è CEO di The Bridge e Chief Commercial Officer di Piquadro. Decisivo, per il buon esito dell’azione di semplificazione portata a termine nel suo gruppo, è stato lo “stop and go” imposto dal Covid nel 2020. “Qualche tempo fa – spiega – ci siamo resi conto di avere un problema: non generavamo più cassa come negli anni precedenti. Il Covid ci ha dato il tempo e il coraggio di operare quel grande cambiamento di cui parlavamo da oltre un anno. Abbiamo riscritto le regole partendo da valle, riducendo di due terzi la numerosità dei momenti di vendita, che generano obsolescenza, mangiano la cassa e incoraggiano gli sconti. Riducendo il numero di prodotti immessi sul mercato, poi, abbiamo potuto pensare di più ai prodotti, mentre il marketing ha avuto più chiaro cosa comunicare”. Già, perché la moltiplicazione dell’offerta, oltre a creare difficoltà nel meccanismo e a generare costi, rischia di confondere la narrazione e la percezione dei prodotti distintivi di un’azienda. Ne è convinto Roger Botti, AD di Robilant & Associati. “La prima ragione del non acquisto – secondo lui – è la non comprensione. La complessità invita il cliente che ama i prodotti-icona di un’azienda all’infedeltà. E le produzioni non distintive sono l’inizio dell’infedeltà. Se fai troppe cose, il cliente non capisce più chi sei. Si deve tendere invece all’unicità e l’unicità è il contrario della proliferazione”.

Identificare e misurare le “perdite nascoste” individuandone i fattori

Il problema della complessità si pone soprattutto quando l’azienda non sembra palesare grandi difficoltà e i bilanci non segnalano criticità. Una calma apparente, legata anche al fatto che è difficile adottare metriche efficaci per quantificare un eventuale danno legato alla complessità. “È spesso una perdita nascosta”, ammette Marco Marioni, oggi CEO di Vismara Marine e per oltre trent’anni in Pirelli Tyre. “Quando in azienda la dimensione è diventata critica, abbiamo dovuto fare un grosso sforzo di quantificazione e poi spendere tanto tempo in comunicazione interna per convincere tutti prima che potessimo iniziare a declinare un intervento di razionalizzazione e di taglio alla componentistica, ai fornitori e alle fonti”. Chi, oggi, si affaccia sul mercato con nuovi brand e nuovi progetti deve invece mettere in agenda questo tema da subito per evitare che diventi ingestibile in seguito. “Abbiamo identificato i fattori che alimentano la complessità”, spiega Michelangelo Liguori, che dallo scorso anno è General Manager in Micro Mobility Systems. “Sono una decina: il prodotto stesso, nel contesto competitivo in cui viene proposto, la componente mercati e clienti, spesso diversificata per aree geografiche, i volumi, che più sono alti più aumentano il problema, il processo di vendita, che sia on line o con canali fisici, il modello di distribuzione e di after sales, il modello di produzione, il processo produttivo, la supply chain e l’organizzazione”.

I risultati di un’operazione di decomplexity

La complessità – va detto – non è di per sé un elemento sempre negativo: in certi casi è voluta e viene perseguita per poter aggredire più mercati o per offrire un numero di prodotti adeguato alla richiesta che può esserci in un determinato settore. Diventa un problema quando inopinatamente porta a conseguenze difficilmente gestibili. È allora che dev’essere avviata una efficace operazione di riduzione della complessità, i cui risultati di solito si vedono dopo 12 mesi. “Nel nostro caso sono stati molto evidenti”, racconta Pierpaolo Palmieri. “Abbiamo definito i prodotti che presidiano le funzioni d’uso e i prodotti che devono fare fatturato e margine. Ora c’è molta più disciplina in azienda: se entrano nuovi prodotti, altrettanti escono. Era ciò che mi auguravo. Non mi aspettavo, invece, che dopo mesi di lotte interne per far passare la nuova linea, la gente in azienda cominciasse a percepire un aumento della qualità della vita”.

La gestione della complessità è un tema dell’amministratore delegato

Questo tipo di intervento è spesso un momento catartico che coinvolge tutta l’azienda e per il quale è necessario il più alto livello di consenso. Una fase che dov’essere guidata non tanto da una persona, ma da un processo che preveda vari passaggi. Ciò non significa che l’iniziativa debba partire dal basso. Tutt’altro, come spiega Michele Bruno, Chairman and Managing Partner EIM: “L’approccio alla decomplexity dev’essere top-down, non bottom up. È frutto di una visione strategica dell’azienda e di chi la dirige. Nel questionario che abbiamo proposto è emerso che per un terzo delle aziende quello della complessità è già percepito come un tema dell’amministratore delegato, per le altre forse non ancora, ma è lì che bisogna arrivare. È uno dei processi con cui governare la performance dell’organizzazione focalizzandosi non sul singolo contributo, ma sull’ottimizzazione del sistema. Quindi coinvolge necessariamente L’AD”.

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