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Primo argomento: joint venture e altri tipi di strutturazioni societarie che ci possono essere. Costruendo su quello che ho visto in FIMO, ma anche in esperienze precedenti, in cui ho avuto la fortuna di essere consigliere in un paio di joint venture che veramente non funzionavano nemmeno a spingerle, secondo me, ci sono due elementi chiave.
Innanzitutto, come è ovvio, non c’è una regola aurea, sennò sarebbe troppo facile. La condividiamo, la sappiamo tra di noi e tutto funziona bene. Strategia e governance. Ci deve essere, come sempre, un approccio di fondo. Si deve sapere qual è il motivo, come diceva giustamente il dottor Razelli. Si può dire: io faccio una joint venture perché in una geografia dove sono qualcuno mi porta una tecnologia oppure perché porto io una tecnologia in una geografia dove non sono, oppure posso andare con un cliente che così, magari, abbassa un po’ il margine, ma mi garantisco l’accesso al mercato in una certa maniera. Bisogna avere le idee chiare su quello che serve, perché a volte si sbagliano queste cose.
Secondo, la governance. Le due joint venture in cui ho partecipato da consigliere erano due joint venture al 50 per cento in Romania, con l’altro 50 per cento detenuto dal direttore generale rumeno, che era il ras della zona. Cioè, era una maniera per mettere più soldi possibili senza contare nulla, sostanzialmente. E lì anni di discussioni, di litigi, di minacce. Insomma, una roba…
Queste sono le due cose fondamentali. Quindi, la joint venture può essere una soluzione, però ci deve essere un motivo. Non è che si fa una joint… A volte, ho sentito imprenditori che dicevano “faccio una joint venture”, avendo in testa in realtà un accordo commerciale, che è molto più semplice. Quindi, bisogna prima capire esattamente dove si va a parare, se alla joint venture, alla governance, al bilancio, alle chiusure, ai consiglieri, alle trasferte e così via. Un accordo commerciale è più semplice.