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La crescita dev’essere
un obiettivo anche delle piccole e medie aziende?

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Giorgio Marsiaj, Ceo di Sabelt e presidente dell’Unione Industriali di Torino

Puntare alla crescita significa poter competere nei mercati globali, ma ha anche importanti riflessi sociali e sul livello di occupazione del Paese. È giusto che si ponga questo obiettivo anche chi ha la proprietà di realtà imprenditoriali di dimensioni medio-piccole? Ed è opportuno affidarsi a manager esterni in grado di innescare il cambiamento? Una risposta competente e interessante la dà Giorgio Marsiaj, Ceo di Sabelt e presidente dell’Unione Industriali di Torino, che ha curato la prefazione del libro scritto dai Partner EIM e edito da Hoepli “Gestire il Business Fluido” ed è intervenuto nel workshop “Imparare a crescere”, organizzato a Torino da EIM Italia.

Crescere vuol dire creare sviluppo, benessere, opportunità di lavoro, interazione costruttiva tra realtà e culture diverse. È innanzitutto un problema della proprietà, che deve avere una visione e decidere dove vuole andare, per poi affidarsi a chi sappia sviluppare un progetto di medio-lungo periodo. Per crescere oggi è necessario mettersi in gioco e concentrarsi su alcuni concetti indispensabili a tutte le aziende: innovazione, internazionalizzazione, riorganizzazione della governance, managerializzazione. D’altra parte la proprietà si può ereditare, la managerialità no.

Mettere in pratica tutto questo non è facile. Le aziende italiane, per il 97%, sono piccole o piccolissime e per la maggior parte si tratta di aziende familiari: tradurre queste priorità in operatività significa dover accettare il cambiamento, investire, rischiare. Io credo fortemente nel modello di impresa familiare, che vede un nucleo di controllo ben definito e in cui si lavora costantemente per rafforzare la propria realtà in vista di un successivo ricambio generazionale. Conosco le remore che può avere la proprietà a compiere un passo dopo il quale potrebbe non essere più possibile tornare indietro. Ma so anche quanti vantaggi può dare quel passo in avanti.

La mia è una famiglia di imprenditori, che ha saputo mantenere la continuità pur dimostrando il coraggio di misurarsi e di contaminarsi con grandissime realtà internazionali. Io e mio fratello facciamo parte della seconda generazione, ma è già pienamente operativa la terza. Nel 1972 abbiamo fondato la Sabelt e nel 1985 abbiamo deciso di cedere la maggioranza a TRW, colosso americano con un giro d’affari da 7 miliardi di dollari, conservando comunque una quota significativa, per poi riprendere, molti anni dopo, il controllo dell’azienda. Avevamo un ottimo prodotto e un cliente locale come Fiat: perché mai arrivammo a prendere la decisione di cedere la maggioranza azionaria della nostra azienda? Perché comprendemmo che per crescere c’era bisogno di aumentare il livello di innovazione e di tecnologia e di guardare al di là del mercato domestico. Servivano molto coraggio e una visione per stabilire dove andare nel lungo periodo. Tornando da Detroit, io e mio fratello capimmo che non avevamo più tanta scelta, ma che stavamo tracciando una via. Alberto Falck mi chiamò e mi chiese di spiegare agli imprenditori italiani che si può continuare a vestire un ruolo importante e proficuo nella propria azienda anche se non se ne è più padroni. Nel mio caso, davvero quel connubio fu proficuo, e lo fu sia per la grande multinazionale, che ampliò il proprio raggio d’azione e si avvalse di una realtà di successo, sia per me, che imparai così tanto in quegli anni da avere la sensazione di aver conseguito decine di master.

La mia storia può essere paradigmatica oggi per le aziende italiane, che devono acquisire una visione di medio-lungo periodo e cercare di mettere in atto procedure che consentano di aumentare i volumi nell’anno in corso, ma che siano in grado anche di funzionare nell’anno successivo e su una prospettiva di almeno cinque anni, con attenzione a ogni dettaglio.

Per compiere il passo decisivo verso la crescita le aziende devono però managerializzarsi e devono farlo in modo tale da rendere questo processo ineluttabile. Anche in questo caso, va detto, le dimensioni contano: manager all’altezza si possono avere attraverso un complesso percorso di formazione o andando a cercarli sul mercato, ma spesso mancano comunque l’esperienza e il know how organizzativo per cambiare i processi all’interno dell’azienda. In questi casi l’intervento di realtà che sappiano fare interim management può davvero rivelarsi la chiave di volta per un cambiamento che inneschi la crescita. Un manager esterno, destinato a operare per un tempo definito in una realtà aziendale, deve portare tutto il suo bagaglio di conoscenza e stare vicino agli imprenditori, che a loro volta devono capire che per diventare più competitivi è necessario investire e innovarsi.

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