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Integrazione post-M&A: strategie, processi e skill necessari.
Esperienze a confronto

Operazioni di fusione e acquisizione:

le riflessioni dei manager protagonisti

In una fase di ripartenza del mercato come quella che stiamo vivendo, le operazioni che portano a fusioni e acquisizioni sono in forte aumento per cogliere opportunità e rafforzare il posizionamento aziendale più velocemente rispetto alla concorrenza. Non solo: la crescita per vie esterne è sempre di più una necessità per restare al passo con le evoluzioni dei mercati.

Sebbene, in genere, siano ampiamente standardizzate le fasi che precedono il closing, c’è spesso una colpevole sottovalutazione dell’importanza della fase del “post M&A”, visto che più della metà delle acquisizioni non centra gli obiettivi di raggiungimento dei valori fissati nel deal. Il motivo? Quasi sempre riconducibile a una mancata pianificazione o sbagliata gestione dell’integrazione tra le due realtà che si uniscono, a volte per valutazioni tattico/strategiche errate e altre volte perché non si sono prese bene le misure sui fattori culturali, organizzativi, sociali e funzionali che l’operazione comporta.

EIM Italia ha messo di fronte alcuni manager protagonisti, oggi o nel recente passato, di operazioni di fusione e acquisizione per grandi gruppi e aziende di rilievo, ponendo loro alcune domande per provare a delineare modelli virtuosi: come si fa a trarre pieno valore dalle sinergie? Conviene seguire il modello “imperialista” del completo assorbimento del target o quello “federale” della coesistenza? Che ruolo riservare all’imprenditore che ha venduto? Quali sono gli impatti culturali che possono derivare dall’integrazione? Ne sono nate riflessioni che, se non hanno generato una ricetta unica di successo, hanno certamente individuato gli errori più frequenti e le condotte più efficaci.

Modelli imprenditoriali a confronto: parlano i CEO

“Il lavoro di integrazione è faticoso e richiede tempo”, spiega Lino Tedeschi, a capo di Tesya, un raggruppamento di 18 società che fattura oltre un miliardo e impiega circa 3mila persone. “Molto dipende dall’approccio che si usa: noi ci siamo imposti come regola di non parlare mai di acquisizione con il nostro target, altrimenti lo si demotiva. Ci si fonde, si entra a far parte di un Gruppo e si condivide insieme un sistema di valori, non è certo il mercato degli schiavi, in cui si passa da un padrone all’altro”. Il rapporto con gli imprenditori che cedono la propria azienda è un punto cruciale.

Paolo Recrosio, CEO a livello EMEA della multinazionale Berlin Packaging, non ha dubbi: “Nella nostra filosofia l’imprenditore deve rimanere agganciato al Gruppo. Acquisiamo la sua azienda perché è una realtà di successo e non abbiamo motivo di rinunciare a lui. Il vantaggio è che questo modello non crea forti discontinuità perché di fronte al mercato rimangono la stessa faccia e lo stesso team, ma con un numero di risorse amplificato e più armi a disposizione”.

A questo modello compartecipato si contrappone quello più “imperialista” adottato da Synlab Italia, società leader in Italia e in Europa nella diagnostica medica e ambulatoriale, che fa tantissime acquisizioni imponendo processi uniformi, una compliance gestionale e regolatoria standardizzata e un brand unico. “Nel nostro caso – spiega il CEO Giovanni Gianolliil modello federalista sarebbe difficilmente sostenibile per la complessità che ne deriverebbe. Nonostante ciò, laddove ha un senso di mercato o il target acquisito presenta specificità di processi e servizi, mettiamo come condizione per l’acquisizione che l’imprenditore faccia con noi ancora un pezzo di strada, magari uno, due o tre anni”.

Gli errori di un approccio che non funziona

Non tutti gli approcci si sono dimostrati vincenti, però. Ugo Vinti, CEO di Valvitalia da un anno, è impegnato in un articolato piano di ristrutturazione industriale e finanziaria del Gruppo, player globale nel settore dell’Oil & Gas, con prodotti installati in oltre 120 paesi nel mondo. Valvitalia, nata dall’iniziativa e dall’intuizione di un imprenditore privato, dopo oltre 15 anni di crescita, realizzata in parte tramite acquisizioni (15 in 15 anni), con risultati e margini operativi ampiamente remunerativi, è andata in sofferenza quando il mercato di riferimento ha cominciato a contrarsi. “Le cose sono andate molto bene fino a quando la domanda è risultata superiore rispetto alle capacità produttive del settore. Questo ha forse creato l’illusione che il modello di business adottato, basato sul mantenimento di un elevato grado di autonomia delle società acquisite ma per contro poco efficace in relazione alle sinergie di costo e di governo, potesse risultare vincente”, ha spiegato Vinti. 

“Con l’inversione di mercato, la solidità del gruppo si è repentinamente compromessa e, con volumi di produzione dimezzati, i nove stabilimenti del gruppo hanno cominciato a bruciare cassa. Oggi lavoriamo con un modello organizzativo unico, stiamo ridisegnando il footprint industriale e a breve termineremo l’integrazione di sistemi e processi in un singolo ERP. Di certo sarebbe stato meglio procedere con l’integrazione durante i numerosi anni in cui l’azienda ha realizzato brillanti risultati piuttosto che in un momento di oggettiva crisi di mercato e finanziaria. La strada da percorrere è infatti ancora lunga: va trovato il giusto bilanciamento tra il programma di rinnovamento, l’efficienza e l’integrazione con le capacità manageriali esistenti, tenendo anche conto delle tipiche resistenze al cambiamento di parte dell’organizzazione”.

Divario culturale: un aspetto da non trascurare

Un problema serio nasce quando si sottovaluta il divario culturale tra realtà lontane, specie in operazioni che avvengono a livello internazionale. Ne sa qualcosa Winfried Schaller, CEO di Lincotek Rubbiano, un “Contract Manufactoring” specializzato nel rivestimento di superfici speciali con 15 stabilimenti nel mondo, reduce da operazioni di successo ma anche da fusioni che non hanno dato i risultati auspicati nell’immediato: “Di una recente esperienza negli Stati Uniti voglio enfatizzare l’importanza del contesto e delle differenze “culturali” che si possono incontrare. Occorre dare la priorità a lavorare sulle persone, essere aperti a riconoscere che certe differenze ci sono e che vanno accettate; ma purtroppo questo non è sempre sufficiente. È fondamentale invece non mollare alle prime difficoltà, saper accettare che qualche volta sono necessarie più iterazioni prima che si riesca a raggiungere il successo dell’operazione. Queste iterazioni possono avere impatti sulle tempistiche preventivate ma sono ugualmente importanti e non trascurabili. Ovviamente, quando il gap culturale è molto alto – cosa questa che difficilmente si intravede all’inizio del percorso, ma che fa sentire i suoi effetti man mano che si lavora assieme – vale la pena intervenire il più velocemente possibile, senza ritardare il tempo della piena valorizzazione dell’operazione”.

E se nelle aziende la resistenza al cambiamento è particolarmente forte? Anche in questo caso possono esserci approcci soft e politiche più incisive. Per Recrosio l’integrazione “è un processo da sviluppare con armonia e portando piano piano a bordo le persone. Il modello può essere anche imperialista, ma la parola più importante dev’essere comunque ‘inclusività’. Bisogna porsi con umiltà di fronte ai nuovi interlocutori”. Per Gianolli occorre una comunicazione differenziata per livelli organizzativi: il personale va rassicurato e informato sul futuro e sugli sviluppi positivi strategici e operativi dell’operazione, mentre al top management vanno spiegate chiaramente le regole del gioco e il nuovo modello gestionale: “Premesso che si cerca di puntare sempre sull’inclusività e si fanno tutti gli sforzi possibili in tale direzione, purtroppo a volte ci troviamo di fronte non tanto ai resistenti al cambiamento, ma proprio agli oppositori. In questi casi bisogna avere il coraggio di intervenire: se loro non cambiano, li cambiamo noi”.

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